A M’ARCORD
Appunti Storici di vent’anni fa:
Macchine da musica mid-class che hanno spalancato le porte
all’hi-end - 1ª parte
Fra la seconda metà degli anni
80 e la prima metà dei ’90, l’alta fedeltà più esclusiva visse
un periodo intenso, vigoroso, sia per la poderosa spinta
fornita dallo sviluppo dell’era digitale che per un’affermata
consapevolezza dell’inconsistenza di certi luoghi comuni e di
prestazioni strumentali che ben poco avevano a che spartire
col responso musicale, grazie anche al livello conoscitivo e
tecnologico raggiunto in campo elettroacustico e, non ultimo,
all’opera educativa ed al percorso formativo introdotti da
alcuni grandi tecnici e giornalisti illuminati di settore.
Se quegli anni videro
l’affermazione e la consacrazione di assoluti pesi massimi
come ad esempio Mark Levinson, Audio Research, Cello,
Spectral, Krell, Infinity, Sota, Oracle, B&W, Sonus Faber,
Accuphase, Wadia, Audio Note, Goldmund, attraverso
prodotti che ancora oggi vivono di fulgida luce propria,
un fervido sottobosco di produttori, fra cui alcuni forse
meno noti, |
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partorì alcune opere
certamente assai minori nel prezzo ma capaci di una
riproduzione musicale di altissimo livello e di un contenuto
tecnico non banale, tali da renderli “simpatici” e comunque
stimati anche agli occhi degli audiofili più spocchiosi.
Personalmente, in quegli anni
passavo dalla condizione di studente a quella di lavoratore
alle prime armi, ovvero di squattrinato cronico che non poteva
nemmeno permettersi di sognare i prodotti di punta dei
Costruttori sopraccitati (semplicemente, li ignoravo perché
matematicamente irraggiungibili), fantasticando piuttosto di
altre apparecchiature quando ancora nella mia mansarda da
celibe la musica fruiva da un discreto sistema Thorens-Ortofon
(cdplayer Pioneer) – Nad – Jbl.
Col tempo e con i sacrifici che
hanno lastricato la storia di quasi tutti noi audiofili,
alcune di queste elettroniche riuscirono ad entrare fra le mie
mura domestiche mentre altre furono assimilate da mio fratello
maggiore, altre ancora metabolizzate da tanti ascolti in casa
di amici.
Ecco, lo scopo di questo
articolo è soltanto un tuffo di un passato che definirei
semi-vintage, magari per ripescare qualcosa che ancora oggi
sarebbe in grado di imporre la propria personalità, in barba
all’attuale frontiera del made in China e dintorni e, più in
generale, ai tanti listini spesso inguardabili.
Magari, soltanto un pretesto per
un amarcord di prodotti intrisi di affezione e di grandi
soddisfazioni, poi perduti in cerca di un’irraggiungibile
chimera della perfezione sonora nella riproduzione musicale in
ambito domestico. Di seguito, rigorosamente senza ordine
logico o di merito, il mio personalissimo elenco:
Dac - Audio Alchemy DDE v1.0:
in piena epoca del digitale no-compromise a più telai, a
cavallo del 1990 giunge dagli USA un convertitore esterno al
contempo depistante e geniale, un nanerottolo di poco più
grande d’un palmo di mano capace di prestazioni complessive
prossime ai migliori progetti del periodo, ma ad una frazione
del loro prezzo. Inizialmente commercializzato a circa 780.000
lire, vantava una costruzione degna di menzione, basata sul
ricevitore Philips SAA7274 e sul chip monobit Philips SAA7323,
oltre ad una sezione analogica prettamente a discreti, facente
uso di un solo operazionale Analog Devices AD746 diviso per
entrambi i canali, tanto semplice quanto di egregia efficacia.
Versatile oltre la media, con possibilità di inversione della
fase, dotato di un ingresso ottico ed uno coassiale, un’uscita
coassiale ed una seconda disattivabile a standard I2S
per il collegamento a processori esterni (es. il successivo
XDP della stessa Audio Alchemy), divenne in breve tempo un
vero best-buy, contribuendo all’affermazione sui mercati
internazionali del neonato marchio americano. Dotato di un
piccolo e mediocre alimentatore esterno, il DDE (Digital
Decoding Engine) poteva essere “up-gradato” con l’anti-jitter
DTI v1.0 , con una sezione analogica esterna denominata ADE e
con un alimentatore più corposo, il PS Three (od anche il PS
Two, che poteva alimentare sino a 3 componenti Audio Alchemy).
Il suo successo fece lievitare il prezzo d’acquisto sino a L.
1.120.000 nel giro dei tre anni successivi alla
commercializzazione in Italia.

Timbricamente corposo e caldo per via di una lieve ma
avvertibile sottolineatura del medio-basso, seppe essere forse
il più analogico fra i vari convertitori concorrenti, anche di
stampo hi-end, ovvero un giocattolo assolutamente magico che
cedeva soltanto nella risoluzione più spinta e nel vigore
dell’estremo basso, ma solo quando direttamente confrontato
con apparecchiature che costavano 4-5 volte tanto. Piccolo e
carino com’è, ne possiedo ancora un esemplare acquistato nuovo
nel ’91 con 7 sudatissimi bigliettoni, a cui ho gettato da
tempo l’alimentatore in dotazione per alimentarlo con ogni
cosa compatibile (+-12Vcc) che mi sia capitata fra le mani,
compresi alcuni “mostri” autocostruiti.
Pre – Rose RV23S:
nel revival valvolare dell’epoca, ove il must per ogni
impianto “giusto” era costituito dal possesso di un
preamplificatore a tubi sottovuoto e , per tale motivo, gli
audio-esterofili si contendevano le proprie esigue finanze fra
gli americani CJ PV10, Audible Illusion 2D ed i britannici
Beard CA35 e Audio Innovations 200, ecco che la terra d’Albione
estrae dal suo cilindro questo minimalista e minuto
preamplificatore ibrido. La Rose Industries di Abingdon (Oxon)
viene fondata nel 1986 e, per almeno 7 anni, si concentra
esclusivamente nella produzione e revisione del pre RV23; se
non erro, la versione S costituì la terza rivisitazione del
progetto, con due varianti sostanziali: l’adozione di un
trasformatore esterno e l’eliminazione di una valvola dal
circuito di linea, per un totale di rimanenti 4 doppi triodi
ECC82 equamente ripartiti fra sezione phono (con MC a discreti
a stato solido) e sezione ad alto livello. A fronte di un
prezzo di listino fissato in lire 1.850.000 (periodo
1992-1993), decisamente concorrenziale sebbene non ancora
popolare, il Rose si permetteva il lusso di una musicalità
limpida, cristallina, di fulgida trasparenza ed ampia scatola
sonora, cui solo la liquidità in gamma media e medio-alta ne
tradiva il cuore valvolare. Rispetto ad analoghi disegni
realmente hi-end (anche nel prezzo), soffriva di una gamma
bassa non potentissima e di una sottile leggerezza negli
spunti dinamici più intensi, compensati però da una rara
raffinatezza timbrica. In considerazione della sua splendida
quota musicale, in grado di soverchiare la quasi totalità dei
diretti concorrenti contemporanei, ritengo il rispettivo usato
valutabile oggi in 300-400 euro, in funzione del suo stato
d’uso. Rammento come se fosse ieri di qualche illustre (nel
senso di credibile per una professionalità e passione recepite
direttamente attraverso più di un contatto col sottoscritto)
giornalista tecnico di settore preferirlo alle pur nobili
apparecchiature concorrenti sopraccitate. L’alta fedeltà sarà
anche terribilmente soggettiva, ma alcune realizzazioni
rimangono nei ricordi della totalità dei critici e
professionisti di settore: non credo si tratti di fortuite
coincidenze!
Finali monofonici – Albarry Music M408II: La prima versione di questi
splendidi finali monofonici a transistor risale ai primi anni
’80, alla quale seguì una benemerita ed acclamata revisione a
cavallo fra gli ‘80 ed i ’90: le “caramelle Rossana”, così
ribattezzati per il frontale in plexiglass rosso trasparente e
l’inserto d’alluminio sul top verniciato d’un rosso fiammante
a percorrerne tutta la profondità superiore. In barba
all’estetica dimessa che accompagnava la quasi totalità delle
apparecchiature inglesi, gli Albarry si presentavano come dei
compatti e coriacei parallelepipedi di bella costruzione e
d’aspetto assolutamente originale e piacevole, contraddistinti
da una realizzazione elettronica tanto curata quanto assai
semplice: il progetto si basava infatti su di uno schema
d’amplificazione Darlington TIP 146 e TIP 141 in classe AB, a
simmetria complementare con pilota e differenziale d’ingresso,
alimentato da generatori di corrente costante, con protezione
degli stadi finali imperniata su di un circuito
optoelettronico ininfluente ai fini musicali.
Gli Albarry M408II erano stati
progettati per una potenza dichiarata di soli 40W RMS su 8 ohm
ma in grado di garantire correnti di picco di ben ±22A.

E il suono? Come scrissi già a
suo tempo: “…..assetto musicale di rara bellezza, senza
prediligere alcun parametro acustico a scapito di altri. La
timbrica è leggermente eufonica, il carattere sonico è solido,
dinamico, brillante, preciso senza divenire radiografante. La
risposta ai transienti è talmente precisa e veloce da
rivaleggiare con i migliori disegni a stato solido attualmente
in commercio, sino a lambire le frontiere più estreme
dell’high-end. La restituzione tonale delle voci e degli
strumenti (con una particolare predilezione per gli strumenti
a corda, sempre resi con encomiabile veridicità) è naturale e
corretta, senza indurre artificiosità che a lungo termine
sfocerebbero in fatica d’ascolto”.
Veramente magici ancora oggi,
rimangono a mio parere il miglior esempio di scuola britannica
a costi ancora terreni di quella che negli anni ’80 fu una
vera a propria new-wave inglese dell’alta fedeltà. Attorno al
1990 costavano di listino circa lire 2.400.000, per poi salire
in pochissimi anni oltre i 3.000.000 di lire. Attualmente, la
quotazione del (raro) usato è piuttosto elevata, proprio
perché la richiesta è assai maggiore dell’offerta (per il
culto che si sono ritagliati nel tempo): i fortunati
possessori che decidessero di rivenderli giungono oggi a
chiedere fra gli 800-1050 euro a coppia. Troppi? E cosa c’è di
migliore oggi a parità di prezzo?
Finali monofonici - Moth 40 mono: conterranei e contemporanei agli Albarry,
questi scatolotti in legno verniciato d’un cupo colore nero
con uno spesso frontale color noce scuro, sono uno dei
capolavori circuitali di quell’ex enfant prodige, al secolo
Stan Curtis (fondatore – direttore di Cambridge Audio, Mission,
IAG, collaboratore di Lecson, Teac, Rotel, Aura, Monrio, QED,
Celestion, Sugden, Monitor Audio, Wharfedale, Revox, sino alla
presidenza di Quad ed alla firma di alcune celebri
realizzazioni B&W) che contribuì in modo determinante al
blasone hi-fi inglese e che, nel 1989, disegnò per il vecchio
amico Mike Harris di Moth un’intera linea di pre e finali.
Tali circuitazioni a stato solido resero celebre in
contemporanea ed in tutto il mondo l’intera linea 400 di
Cambridge Audio, che cito pertanto in questo ambito perché
assolutamente da rammentare quale trampolino di lancio verso
la fedele riproduzione musicale domestica per molti audiofili
oggi “over 40”.
Spero di non riportare
un’informazione errata, ma se ben ricordo i Moth 40
riprendevano a ponte la circuitazione del finale stereofonico
Moth 30, garantendo comunque 40W/ch su 8ohm e 50W/ch su 4ohm.
Contraddistinti da dimensioni
piuttosto contenute (10x5x34 cm LxHxP), erano in grado di
elargire un suono trasparente, di grande coerenza tonale e
prospettica, dalla timbrica velatamente eufonica (una
bellissima e dorata gamma media) e buon piglio dinamico. Oggi
possono valere 400-450 euro la coppia se perfettamente
funzionanti, permettendo al loro fortunato possessore il lusso
di una grande resa musicale, davvero molto buona ben oltre la
categoria merceologica d’appartenenza, in particolar modo
quando abbinato a diffusori d’un certo pregio, dal carico
elettrico non eccessivamente ostico e di uguale passaporto.
Integrato - Kelvin Labs The Integrated:
inglese (ma va?), aristocratico, tozzo e massiccio ma ben
rifinito pur se essenziale nelle funzioni, il Kelvin ha
seriamente conteso a Naim Nait la palma del miglior integrato
budget all’epoca in circolazione. Il progetto è completamente
a stato solido, dotato di un raffinatissimo ingresso phono ed
in grado di erogare circa 20W/ch in classe A pura, che
diventavano poco meno di 30W/ch su 4 ohm. Sebbene realizzato
senza sfoggio di componenti esoterici (ricordo gli economici
selettori del bilance e degli ingressi, i miseri connettori
RCA e quelli d’uscita verso i diffusori, anche se poi spiccava
un bel toroidale da 100VA e quattro elettrolitici Sprague da
10.000 microF cadauno), all’epoca fu sovente confrontato con
sistemi d’amplificazione di qualità elevatissima, come ad es.
gli Spectral, in forza delle sue notevolissime prestazioni
musicali, anche in termini assoluti. Evitando abbinamenti con
diffusori dal pilotaggio ostico, il Kelvin Labs sapeva
elargire una coerenza timbrica ed un’omogeneità tonale senza
tempo, ne eccessivamente eufonica ma neppure algida o peggio,
secca, il cui apice era raggiunto nello splendore, nella
luminosità e nella trasparenza della criticissima gamma media
e medio-alta. Capace di una notevole ricostruzione spaziale,
soprattutto quando abbinato a disegni come Rogers LS3/5A o
Sonus Faber Minima FM2 (peccato per la modesta pressione
acustica massima raggiungibile, ma quanto equilibrio ed
armonia…), ProAc Tablette, Spica TC50, ma in grado persino di
ruggire fornendo un quid di aristocrazia a certi monitor JBL
della mitica serie 4000 od alle solite, ottime, Tannoy e
Klipsch ad alta sensibilità.
Forse, il loro maggior limite
era costituito da un certo roll-off sulle frequenze più gravi
ed una dinamica non travolgente, ma all’interno di questi
plausibili limiti vi era la magia.
Acquistabile inizialmente a
circa lire 1.350.000 di listino, oggi risulta piuttosto raro
vederlo comparire fra gli annunci dell’usato. E, quando
disponibile, la quotazione non è mai bassissima….
Diffusori – Spica TC50:
Le americane Spica TC-50, prodotte dal 1984 al 1988 dalla
Spica di Santa Fe, furono successivamente riproposte dalla
company Bryn Mawr di Albuquerque dal 1989 a circa il 1996
compreso. Pur contraddistinte da alcuni peculiari compromessi
progettuali, furono in grado di competere su molti parametri
acustici ad armi pari con sistemi ben più costosi. D’aspetto
visivo dimesso ed un poco bruttino, erano contraddistinte dal
particolare taglio obliquo del frontale che ne faceva dei veri
e propri prismi triangolari, col fine tecnico di una migliore
coerenza di fase dei drivers, a loro volta circondati da un
ampio foglio di feltro con funzioni di limitatore di fenomeni
diffrattivi delle onde sonore sul baffle anteriore. Il disegno
era un classico due vie, con tweeter a cupola soffice da 1
pollice ed un woofer a cono del diametro di 16,51cm. Il
caricamento del woofer era in sospensione acustica, con
un’impedenza che toccava circa i 3,7 ohm sulle basse frequenze
ed in gamma media. La risposta in frequenza, del resto
avvertibile ad un orecchio un poco allenato, presentava un
roll-off dapprima dolce sulle medio-basse frequenze e poi più
netto al di sotto dei 70 hertz, come di converso anche le
altissime iniziavano ad attenuarsi oltre i 14 Khz. All’interno
di questi “limiti” progettuali le TC - 50 si permettevano il
lusso di una linearità spettacolare (anche di fase acustica)
dai 300 Hz sino a tutta la gamma medio-alta, esibendo una
trasparenza ed una coerenza timbrica in grado di rivaleggiare
persino con i più noti disegni elettrostatici del periodo (Quad,
Martin Logan, Magnepan).

Nel complesso le Spica TC-50
spiccavano (mi si scusi il gioco involontario di assonanze)
anche per una suadente nota di calore sul medio-basso, che le
rendeva fruibili e pienamente appaganti anche per ascolti
prolungati. Oggigiorno, addirittura, sortiscono esiti
addirittura superiori grazie a sistemi di amplificazione anche
di costo non esorbitante, in grado di pilotare agevolmente
carichi un poco più impegnativi della media. Un predecessore
ed analogo disegno, concettualmente assai simile alle Spica,
fu il LCM-1 (Low cost monitor) della canadese Dayton Wright
Group Ltd di mr. Mike Wright, assai ben accolto dalla stampa
americana (The Audiophile Society Minutes – vol.5 No.2 e
Stereophile – Vol.7 No.2) e costruito fra il 1982 ed il 1988.
Altre specifiche tecniche delle
Spica TC-50:
Tipo: a due vie da stand in
sospensione pneumatica.
Frequenza di crossover: 2 Khz
con pendenza del passa alto approssimativamente del primo
ordine (6 dB/ottava); passa basso del quarto ordine (24
dB/ottava); altoparlanti connessi con la stessa polarità.
Risposta in frequenza: 60Hz - 17
Khz -3dB.
Sensibilità: 84 dB/w/m.
Impedenza nominale: 4 Ohms (3,6
Ohms minimi a 4 Khz).
Requisiti di amplificazione: 25
- 100 Watts
Potenza massima sopportabile: 50
Watts continui, 100 Watts di picco.
Dimensioni: 394 x 330 x 295 mm.
(HxLxP)
Il listino dei primi ’90 era
fissato attorno al milione e mezzo delle vecchie lire.
Difficile trovarne di usate: chi
le possiede, se le tiene ben strette!
Fine parte Prima
Buoni ascolti e sensazioni.
Cristiano
Nevi
marvel147@gmail.com
A M’ARCORD
Appunti Storici di vent’anni fa:
Macchine da musica mid-class che hanno spalancato le porte
all’hi-end - 2ª parte
“Fra la seconda metà degli anni
80 e la prima metà dei ’90, l’alta fedeltà più esclusiva visse
un periodo intenso, vigoroso, sia per la poderosa spinta
fornita dallo sviluppo dell’era digitale che per un’affermata
consapevolezza dell’inconsistenza di certi luoghi comuni e di
prestazioni strumentali che ben poco avevano a che spartire
col responso musicale, grazie anche al livello conoscitivo e
tecnologico raggiunto in campo elettroacustico e, non ultimo,
all’opera educativa ed al percorso formativo introdotti da
alcuni grandi tecnici e giornalisti illuminati di settore…
[omissis]...
Ecco, lo
scopo di questo articolo è soltanto un tuffo di un passato che
definirei semi-vintage, magari per ripescare qualcosa che
ancora oggi sarebbe in grado di imporre la propria
personalità, in barba all’attuale frontiera del made in China
e dintorni e, più in generale, ai tanti listini spesso
inguardabili.
Magari,
soltanto un pretesto per un amarcord di prodotti intrisi di
affezione e di grandi soddisfazioni, poi perduti in cerca di
un’irraggiungibile chimera della perfezione sonora nella
riproduzione musicale in ambito domestico.”
Di seguito,
la seconda parte:
Cavo di
potenza MAMBA:
correva l’anno 1989 e già da tempo si parlava di cavi
esoterici dal costo proibitivo, in grado di far decollare le
prestazioni complessive degli impianti più esclusivi.
Ma, mentre
infervorava la battaglia del rame iper puro, metalli nobili ed
innovative conformazioni steriche della struttura cristallina
fra Van Den Hul, Monster, MIT, Straight Wire e Madrigal, due
simpatici distributori italiani, Vannino Spinelli & Joseph
Szall, decisero di far costruire e commercializzare un
terribile cavo di potenza ammazzagiganti di colore viola,
denominato furbescamente Mamba in ossequio al più veloce ed
aggressivo serpente conosciuto (dendroapis polylepis). Tanto
per sottolineare la metafora audiofila del Mamba, si associno
al rispettivo rettile tipico della fascia sub-sahariana
l’aggressività senza pari ed un veleno di un’efficacia letale
così rapida da essersi meritato il nomignolo di “sette
passi”!
Ergo, si
trattava d’un cavo solid-core in rame purissimo ricoperto
esternamente in lamina d’argento, a quattro poli da mezzo
millimetro di sezione cadauno e singolarmente inguainati in
PVC, di cui due capi di colore bianco e gli altri due di
colore rosso, il tutto inguainato in un soffice e spesso PVC
viola acceso.
La struttura
piena dei conduttori lo rendeva piuttosto indomabile, ma al
contempo si lasciava piegare anche in curvature strette che
sapeva mantenere nel tempo: in altri termini, malleabile
eppure mai flaccido!
Sulla guaina
esterna era ciclicamente serigrafata la dicitura in
stampatello “Mamba” di colore bianco, preceduta e seguita da
due freccette bidirezionali, appunto per mettere bene in
evidenza il pensiero dei due progettisti in merito alla teoria
dei cristalli di rame orientati. Se la memoria non m’inganna,
si trattava all’epoca del primo cavo di potenza bidirezionale
dichiarato, in netta controtendenza rispetto ai canoni
costruttivi ed alle mode dell’epoca.
Il Mamba fu
il mio primo cavo di potenza “serio”, dopo un lungo periodo
trascorso convivendo con cavi autocostruiti, cavi di
derivazione industriale e cavi di primo prezzo fra cui il
Monster Cable XP, inserito inizialmente fra un integrato
Kelvin Labs e i (parecchio rimpianti) diffusori da stand
Infinity RS-5K.
La sua
peculiarità consisteva essenzialmente nel costo, il cui
listino si aggirava attorno alle 7000 – 7500 lire al metro
sciolto, facendolo di fatto pericolosamente rientrare fra i
cavi “seri” di primo prezzo nonostante le prestazioni
complessive pressoché sconosciute a tutti i suoi diretti
concorrenti.
Non nego di
essere tutt’ora in possesso di alcuni esemplari di questo
splendido oggetto, come non nego di essere costantemente alla
ricerca di qualche lungo spezzone a buon prezzo, perché col
Mamba mi sono letteralmente divertito nell’autocostruzione,
realizzando due corte coppie di cavi di segnale sbilanciati e
non schermati (beh, mai provato a trasformare cavi di potenza
in analoghi di segnale? No? Peccato!), ricablando qualche
diffusore, un bellissimo finale Audioanalyse B90 od ancora
realizzando qualche ponticello per elettroniche e diffusori od
anche cavi di alimentazione a bassa tensione per elettroniche
con sezione di alimentazione esterna.
Ancora oggi,
il violaceo ed imperturbabile cavo di potenza sfodera un
controllo ed una estensione sulle basse frequenze attendibili
ed appaganti, velocissime e ben frenate, magari non
rotondissime ma proprio per tale motivo apparentemente ancor
più dotate di impatto e dinamica. Le medie frequenze sono
molto ben rifinite, semmai si perde un nonnulla sulle
microinformazioni e di intelligibilità sulle voci femminili;
si potrebbe inoltre sentire la necessità di una grana ancora
più fine, ma soltanto se già abituati ad ascoltare musica
attraverso un sistema di riproduzione audio domestica di
elevata qualità con connessioni di tutt’altro costo rispetto
al prezzo di vendita del Mamba. Estese e ottimamente definite
anche le alte ed altissime frequenze, appena velate rispetto
ai migliori riferimenti attuali e dell’epoca; il centro fuoco
è marmoreo, saldo, inamovibile, la scena acustica non subisce
rimpicciolimenti o forzature verso un’immagine “bonsai”, la
sua tridimensionalità è efficacemente proporzionata senza dare
adito ad insopportabili od irrealistiche costrizioni
prospettiche.
I quattro
capi consentono certamente un agevole pilotaggio in bi-wiring
dei diffusori dotati di connessioni sdoppiate per le vie
inferiori e quelle medie/alte: il consiglio spassionato è un
raddoppio dei cavi dedicando un intero conduttore Mamba per
ogni polo di connessione: i miglioramenti sono subliminali, ma
si sentono!
Conclusioni:
cavo di potenza col rapporto qualità/prezzo più alto sul
mercato di ieri e forse anche di oggi, in ogni caso foriero di
prestazioni complessive direttamente paragonabili ad un signor
cavo di gamma media: il suo morso è ancora un vivido ricordo
di certa esoterica hi-end.
Pre –
Synthesis Art in Music PL/1:
di Synthesis si comincia a parlare nei salotti buoni
dell’italica hi-end (nel mio caso, presso la storica Casa
Musicale Giovanelli di Mantova, purtroppo non più attiva)
attorno al 1992-1993 come di un nuovo produttore marchigiano
di graziose e musicalissime elettroniche a tubi sottovuoto.
In realtà la
società Fase di Morrovalle (MC), titolare del brand Synthesis
Art in Music, risulta attiva già a partire dai lontani primi
anni ’60 con specializzazione merceologica negli avvolgimenti
elettrici (fra cui trasformatori), sull’onda del successo di
alcuni celebri costruttori locali di strumenti musicali.
Se ben
ricordo, i primi prodotti furono un finale stereofonico
denominato ST/1 basato su di un push-pull di pentodi EL34
connessi a triodo, uno stadio pre phono PH/1 a doppi triodi
ECC83 e, appunto, il preamplificatore PL/1 imperniato sui
robusti ed apprezzati di doppi triodi a zoccolo octal 6SN7, in
numero di due per canale. Il curatissimo aspetto estetico,
comune a tutta la prima serie di prodotti quale piacevolissima
variante di montaggio delle valvole a vista, era
caratterizzato da forme compatte avvolte in una cornice lignea
trattata con mordente rossastro a finitura laccata, in netto
contrasto con la superficie metallica verniciata di nero
lucido, le cromature delle calotte dei trasformatori e gli
argentei involucri esterni dei condensatori di filtro. Nel pre
PL/1 i selettori d’ingresso ed i potenziometri di controllo
del volume, sdoppiati per i due canali e dalle forme vagamente
old-style, erano curiosamente montati frontalmente sul
pannello superiore di copertura, analogamente ai connettori
in/out RCA, montati invece ai lati del grosso trasformatore di
alimentazione. Tanto essenziale quanto raffinato nei
componenti utilizzati e nella sobria realizzazione circuitale,
il pre Synthesis PL/1 diviene ancora oggi un efficacissimo
esecutore di splendide sonorità, di una suadente timbrica
“sottovuoto” che si amalgama alla perfezione ad un’eccellente
capacità introspettiva ed un’elevata trasparenza dell’evento
musicale, ancorché riprodotto. Dotato di una gamma media
liquida, naturale, persino suadente ma al contempo ricca di
dettaglio, il PL/1 è in grado di riproporre una buona scena
acustica, con un validissimo discernimento dei vari piani
sonori ed un centro-fuoco sovente granitico, incisione
permettendo. Chiaramente, rispetto ai migliori disegni hi-end,
sono sicuramente la nettezza dei contorni strumentali e la
larghezza del fronte sonoro a divenire appena deficitari,
eppure il risultato complessivo è addirittura esaltante per un
progetto che ancora nel 2002-2003 costava poco più di 800
euro, in barba alla totalità dell’attuale ondata cinese che, a
fronte di prezzi similari, non regge il confronto su ogni
fronte dei principali parametri di riproduzione musicale.
Ho avuto la
fortuna di possedere due esemplari in tempi diversi di questo
preamplificatore: il secondo acquisto fu la rivalsa della
vendita dissennata del primo modello, ma che un fulmine mi
distrusse poco tempo dopo. Nonostante altri preamplificatori
mi abbiano permesso di ascoltare successivamente tanta buona
musica, potrei sempre commettere una “pazzia” per il terzo
esemplare, in barba a coloro che con sufficienza e
superficialità non ne abbiano carpito a fondo le intrinseche
qualità (lungi da sterili polemiche, qualche italico forum ne
è la prova cogente ed inequivocabile). In questa fascia di
prezzo e rispetto ai suoi concorrenti a tubi dell’epoca,
rimane il migliore.
Fine parte
Seconda
Buoni
ascolti e sensazioni.
Cristiano
Nevi
marvel147@gmail.com
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